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Produzione di serie

Da Gian Luca Pellegrini direttore di Quattroruote:Mirafiori, provincia di Pechino

Per gentile concessione di Gian Luca Pellegrini, direttore del “vangelo” dell’automobile in Italia, il mensile Quattroruote riproduciamo il suo editoriale che si legge sul numero del mese di Marzo.
Il cambio di paradigma tecnologico. Le implicazioni (e le contraddizioni) della transizione. I retroscena, i personaggi e le storie di un’industria al centro di una rivoluzione. La passione per le belle macchine e la bella guida. In anteprima, per voi, l’editoriale che troverete sul numero di marzo di Quattroruote
Dunque, se i pianeti si allineeranno, aMirafiori – dove sta per terminare la produzione della Maserati Levante – arriverà una Leapmotor. Siccome immagino il disorientamento del lettore all’udire il nome esotico, trattasi di un marchio cinese specializzato in auto elettriche di cui Stellantis controlla il 20%. L’idea è di portare in Italia una Bev low cost, ipotizzando a partire dal 2026 volumi attorno alle 150 mila unità l’anno. Per ora, è una suggestione, tant’è che lo stesso Carlos Tavares fa il possibilista: «Se avremo l’opportunità di produrre vetture Leapmotor in Italia lo faremo, però dovrà avere senso da un punto di vista economico.
Potremmo prendere questa decisione se ci fosse un business case, ma dipende da noi, dalla nostra competitività su costi e qualità». È comunque plausibile che la cosa si faccia. Al netto di qualsiasi considerazione più o meno nostalgica sulla parabola dell’impianto torinese – da fabbrica delle fabbriche (come l’ha definita lo storico Giuseppe Berta) a linea d’assemblaggio di un prodotto cinese – l’inattesa, possibile svolta sollecita qualche ragionamento prospettico. Per iniziare, ora risulta più chiara la strategia negoziale di Tavares, che da qualche mese accusa il governo italiano di aver smarrito quell’attenzione alle istanze Stellantis che lui dà per dovuta. Dopo minacce di vario tipo che hanno suscitato irritazione a Palazzo Chigi (l’affermazione «Senza sussidi gli impianti italiani sono a rischio» è stata interpretata come un ricatto) e addirittura indotto il ministro Urso a ipotizzare l’ingresso dello Stato nell’azionariato del gruppo franco-italiano-americano, il manager portoghese mette sul tavolo il recupero in extremis di un impianto la cui chiusura stava diventando inevitabile. L’obiettivo è chiaro: da un lato, Tavares gioca il jolly della difesa dell’occupazione per ricordare il ruolo pivotale che Stellantis ancora ha negli equilibri industriali italiani; dall’altro, disarma la tentazione del governo di attirare investimenti di altri costruttori, rivendicando un senso di difesa territoriale che ha origini antiche (e che oggi inizia a suonare anacronistica, se addirittura i tedeschi si sono portati in casa la Tesla e Macron fa ponti d’oro a Musk per convincerlo ad aprire un secondo impianto europeo).
Vi chiederete perché destinare a Mirafiori proprio la Leapmotor, peraltro entrata soltanto l’anno scorso nella galassia Stellantis. Il tema è semplice: costruire macchine in Italia costa tanto, rendendo economicamente sostenibili soltanto i modelli di fascia medio-alta che possono garantire margini adeguati. È il motivo per cui il piano del prossimo futuro assegna agli impianti di Melfi e Cassino le vetture che nasceranno sulle piattaforme Stla medium e Stla large (Jeep Compass, Lancia Gamma e le Alfa Romeo, compresa una nuova crossover di taglia grande) e a quello di Pomigliano potrebbe destinare Delta e nuova Tonale. 
Quando si parla di auto dai grandi volumi e dai bassi margini, invece, le nostre fabbriche sono meno competitive rispetto a quelle in Polonia, Portogallo, Spagna e Serbia (infatti Kragujevac si è presa la prossima Panda, mentre per la Suv media Fiat i giochi sono aperti). Così, se la necessità contingente è trovare un appeasement con l’esecutivo italiano senza per questo investire milionate di euro, pescare nel mazzo dei brand anche più remoti una vettura bell’e pronta che si presti a un’operazione di badge engineering trova significato. Fatto il piano, rimane da capire in quale scenario esso vedrà la luce. Più si avvicinano le elezioni europee, più si capisce che il vento è cambiato.

Ho avuto modo di sbirciare il programma del Ppe: vi è scritto che quello verosimilmente destinato a essere il primo partito per preferenze rifiuta «misure impositive come il phase out del 2035, che verrà sottoposto al più presto a una revisione». La stessa Ursula van der Leyen, colei che da presidente della Commissione UE ha guidato il Green deal e il successivo Fit for 55 (e che del gruppo Ppe è il leader), ora sostiene che il check previsto per il 2026 sarà l’occasione per dare organicità alla deroga sui carburanti sintetici che, nonostante le aperture dello scorso autunno, non ha ancora trovato applicazione formale. Insomma, il centrodestra vuole cavalcare lo scontento che il costo sociale delle policy ambientaliste sta facendo esplodere. Così, una volta insediatasi la nuova maggioranza, una correzione di obiettivi e tempistiche pare sempre più probabile. Del resto, è quanto sta accadendo anche negli Stati Uniti alla vigilia delle elezioni presidenziali: Joe Biden, per arginare la minaccia Trump, feroce avversore di qualsiasi tema legato alla sostenibilità, ha in mente di rendere meno stringenti i target di decarbonizzazione giudicati da molti impossibili da centrare nei tempi imposti.
Ci avviamo a un paradossale ribaltamento di ruoli: la politica, compreso che le implicazioni della net-zero economy stanno costando consensi, ora vuole rallentare la corsa che lei stessa aveva stabilito; la maggior parte dei costruttori, però, è troppo avanti nel processo di trasformazione e non può permettersi una marcia indietro che arriverebbe fuori tempo massimo. Si sta avverando, quindi, il timore espresso da Luca de Meo in una chiacchierata dello scorso settembre: «Immaginiamo che nel 2026 arrivi uno e mi dica “Oh, sapete la notizia? Abbiamo scherzato”. Ma io ho già messo 20 miliardi su questa cosa, che faccio, li prendo e li cancello dal bilancio così?». Finirà che a incassare i dividendi della rivoluzione peggio studiata della storia economica moderna saranno – oltre ai cinesi (la BYD ha annunciato l’apertura di uno stabilimento in Ungheria) e alla Tesla – quei costruttori che hanno prudentemente tenuto aperte alternative al full electric…